SESSO È POTERE
INTRO
What Marla loves, she says, is all the things that people love intensely and then dump an hour or a day after. The way a Christmas tree is the center of attention, then, after Christmas you see those dead Christmas trees with the tinsel still on them, dumped alongside the highway. You see those trees and think of road kill animals or sex crime victims wearing their underwear inside out and bound with black electrical tape.
Chuck Palaniuk, "Fight Club"
Chi, per rimanere padrone di ciò che possiede, deve contare sulla mancanza di volontà di altri, è una cosa fatta da questi altri, così come il padrone è una cosa fatta dal servo. Se venisse meno la sottomissione, il padrone cesserebbe d'essere.
Max Stirner, "L'unico e le sue proprietà"
A ottobre 2021 abbiamo presentato una prima analisi del database "Anagrafe degli amministratori locali" pubblicato dal Ministero degli interni, mostrando come il numero di eletti ed elette nei comuni italiani sia completamente sbilanciato a favore dei primi.
Nonostante le donne rappresentino il 51,3% della popolazione italiana, solo il 33% degli amministratori locali è donna e nei venti capoluoghi di regione i sindaci uomo sono 19 su 20.
Il dato più sconfortante riguarda il numero di città italiane in cui la prevalenza di uomini eletti è superiore al 75%: ben 2.293 su un totale di 6.690 comuni censiti.
Abbiamo quindi deciso di allargare l'indagine ad altri ambiti, per capire se questo sbilanciamento sia una "peculiarità" solo degli enti locali o se invece sia strutturale e diffuso anche in settori economici e di potere diversi.
Come potete immaginare, la risposta corretta è la seconda.
Questa inchiesta è quindi completamente dedicata al tema Sesso è Potere, perché come abbiamo spiegato nel primo Samizdat di info.nodes "all’aumento della disuguaglianza non corrispond[e] un aumento della conflittualità sociale, piuttosto il contrario. E allora, forse, il motivo decisivo risiede nella disuguaglianza stessa, ovvero nel suo essere, letteralmente, una enorme differenza di potere tra le parti in gioco".
Non ci interessa sapere se le donne al potere siano in grado di fare meglio o peggio degli uomini, ci interessa però che il potere sia diffuso in maniera più equa tra tutte le parti che da quel potere dipendono.
Lottare contro le disuguaglianze, oggi, significa lottare contro ogni forma di potere, soprattutto quello che ciascuno di noi possiede e che sarebbe meglio cominciasse a cedere volontariamente.
MIND THE GAP
IL RUOLO MARGINALE DELLE DONNE NELLE POSIZIONI DI POTERE
Davide Del Monte
presidente di info.nodes
La nostra analisi comincia da un settore che ci pare particolarmente interessante per la sua capacità di esercitare potere, sia a livello nazionale che globale: le aziende controllate e partecipate dal Ministero dell'Economia e delle Finanze.
Si parla di un totale di trenta aziende, alcune delle quali in grado di giocare un ruolo di primo piano nelle attività geopolitiche del Paese - come ENI e Leonardo - o di gestire e decidere del destino di diversi miliardi di euro pubblici - come nel caso di Cassa Depositi e Prestiti, Invimit, Equitalia giustizia - o di erogare servizi essenziali per i cittadini, come Enel, Poste Italiane e la RAI.
Le trenta società controllate o partecipate dal MEF si dividono in tre gruppi:
Siamo andati a controllare per ognuna di queste società chi ricopre il ruolo di CEO o Amministratore Delegato. Il risultato è che su 30 aziende, solamente in 2 casi il CEO è una donna:
Marina Natale
di Amco spa e
Giovanna Della Posta
di Invimit Sgr.
Interessante notare come nelle 6 società quotate (Mps, Enav, Enel, Eni, Leonardo, Poste Italiane) gli Amministratori delegati siano tutti uomini, mentre in 4 di queste aziende almeno la presidenza (meno importante a livello operativo ovviamente) sia stata affidata a delle donne. In questo senso va tenuto conto che nelle società quotate, in virtù della legge Golfo-Mosca approvata nel 2011, si prevede che il genere meno rappresentato nei consigli d’amministrazione e nei collegi sindacali delle società quotate in borsa e delle società a controllo pubblico ottenga almeno il 30% dei membri eletti (aumentato al 40% con la legge di bilancio 2020).
Pare dunque di capire che l'importante sia che il CEO o AD sia uomo, a questo punto si può anche pensare di lasciare la presidenza alle quote rosa.
Il dubbio si consolida andando a vedere le aziende non quotate, dove su 19 soggetti troviamo solamente una donna AD e 2 presidenti (Chiara Sbarigia a Cinecittà e Valeria Vaccaro a Consip).
Un altro settore in grado di esprimere un potere molto invasivo nella vita di tutti e tutte è sicuramente quello bancario.
Abbiamo quindi preso in esame 28 gruppi bancari presenti sul sito della FABI - Federazione Autonoma Bancari Italiani, il sindacato bancario più rappresentativo in Italia.
Come per le controllate e partecipate del MEF abbiamo controllato chi detiene la guida operativa dei gruppi bancari, andando a mappare i direttori e direttrici generali.
Su 28 banche, solo in 2 casi abbiamo trovato una donna alla guida: Paola Pietrafesa del gruppo Allianz Bank ed Elena Patrizia Goitini del gruppo BNL, dal 2006 sotto il controllo dalla francese BNP Paribas.
Insomma, le uniche due donne che hanno raggiunto la posizione di vertice nel settore bancario in Italia, ci sono riuscite in banche che non presentano un Dna propriamente italiano.
Non ci stupisce constatare come nella sua lunga storia, dal 1892 ad oggi, Banca d'Italia non abbia mai avuto né una Governatrice né una Direttrice donna: nei due ruoli si sono alternati 10 governatori e 22 Direttori, tutti uomini.
I soldi evidentemente sono una cosa da maschi.
Se, a quanto pare, gestire e prestare soldi è un lavoro per soli uomini, anche gestire un'azienda lo è.
Siamo andati a vedere quante donne ricoprono il ruolo di amministratrice delegata nelle prime 20 aziende per capitalizzazione quotate a Piazza Affari (ranking al 25/10/2021).
Il risultato è deprimente: zero.
Nelle venti aziende analizzate gli amministratori delegati sono tutti uomini, venti su venti, il 100%.
C'è poco altro da commentare.
Il Potere non si esprime solamente attraverso la politica e i soldi, anzi, come ha raccontato egregiamente Orson Welles, il "quarto potere", cioè quello dei media, è uno dei più importanti.
Attraverso i mezzi di informazione la collettività ha modo di conoscere i comportamenti, le decisioni (e le motivazioni alle basi delle stesse) dei propri governanti. Per dirla semplice, citando Wikipedia, il quarto potere "mett[e] al corrente il popolo di come operano gli altri tre poteri della democrazia".
Un potere non da poco, soprattutto perché i media sono anche in grado di influenzare l'opinione pubblica su questioni non strettamente politiche, ma sociali: si pensi a temi come l'immigrazione, il reddito di cittadinanza o... gli squilibri di genere.
Siamo quindi andati a controllare quante donne tengono nelle loro mani le briglie dell'informazione: abbiamo preso in esame i 16 quotidiani nazionali con maggior tiratura, 12 telegiornali e 7 tra i siti di informazione online più letti.
Anche in questo caso i risultati sono abbastanza deprimenti: solo una donna, Agnese Pini de "La Nazione" è direttrice di un quotidiano. Per il resto, la direzione degli altri 14 quotidiani (in un caso la "poltrona" è ancora vuota) è lasciata in mano a direttori uomini. La situazione nei telegiornali si è in parte riequilibrata grazie alle recentissime nomine di Monica Maggioni al TG1 e di Simona Sala al TG3: ancora troppo poco, dato che sono le uniche due donne sul 12 redazioni analizzate, ma almeno qualcosa si sta muovendo nella direzione giusta. Per quanto riguarda i 6 siti di informazione online i direttori sono invece tutti uomini.
Se i media contribuiscono a plasmare le narrazioni relative alla nostra società, è difficile pensare che questa narrazione vada incontro alle esigenze delle donne, quasi completamente escluse dai ruoli di vertice.
I soldi forse non danno la felicità, ma come direbbe Marilyn Monroe "se devo piangere preferisco farlo sul sedile posteriore di una Rolls Royce piuttosto che su quello di una carrozza del metrò".
Gestire i soldi, decidere come investirli o a chi prestarli, è sicuramente importante, ma altrettanto importante per esercitare il Potere è... averli.
Abbiamo preso l'elenco dei 51 miliardari italiani pubblicata da Forbes nel 2021 per vedere quante donne sono presenti nell'elenco e quanta ricchezza posseggono.
Su 51 miliardari classificati da Forbes, 38 sono uomini e 13 donne (il 25%). Gli uomini presenti nell'elenco detengono in totale 169,8 miliardi di patrimonio, mentre le 13 donne "solamente" 34,7 miliardi.
La classifica è però sfalsata dai primi due miliardari, Giovanni Ferrero e Leonardo Del Vecchio che detengono rispettivamente 35,1 e 25,8 miliardi. Eliminandoli dal calcolo totale, si ha una proporzione più corretta del patrimonio detenuto dai 36 uomini rimanenti (108,9 miliardi) e dalle 13 donne (34,7 miliardi).
Il dato di Forbes sui miliardari italiani non dice molto in sé, ma è curioso constatare come anche in un diverso ambito di forte disuguaglianza - quella economica - permanga comunque lo squilibrio tra uomini e donne.
Non solo le donne sono pagate meno degli uomini, ma come ha scritto la nostra Gloria Riva su L'Espresso già a gennaio "con la crisi provocata dal Covid-19 le disparità aumentano. Nelle aziende premi e incentivi sono riservati agli uomini, senza motivazione. Ma la politica continua a trascurare il problema: nel Recovery Plan sono indicati solo i propositi, non i tempi e i costi delle misure".
Dello stesso avviso anche la docente e analista Costanza Hermanin, che su Huffington Post sottolinea come "quanto previsto nell’attuale piano redatto dal governo italiano non bast[i] per ridare dignità all’impiego femminile" e che "è tempo che ogni governo, tanto più quello italiano, affronti la questione senza titoletti ad hoc, ma spiegando quali strumenti concreti intende adottare in ogni settore d’investimento delle risorse europee per chiudere il gender gap".
Per riuscire nell'intento di annullare, o quantomeno ridurre sensibilmente, questo gap, c'è però uno strumento essenziale che tutt'ora manca nel nostro paese: i dati. Come rileva l'associazione Think Tank Period "nella lotta alla disparità di genere, le amministrazioni locali e i governi possono mettere in campo delle politiche per favorire l’uguaglianza. Tuttavia, queste azioni necessitano di dati di genere per riuscire a conoscere in maniera chiara e fedele alla realtà una determinata problematica"... peccato che questi dati, appunto, non ci siano.
Sempre Period, in un articolo in collaborazione con Openpolis, rileva infatti come "tra le iniziative promosse dall’Onu contro la disparità di genere c’è la costruzione di una serie di 72 indicatori di genere, volti a monitorare la situazione mondiale e dei singoli paesi in materia. [...] Per quanto riguarda l’Italia, per esempio, si riscontra che meno della metà degli indicatori utili al monitoraggio degli obiettivi che includono un prospettiva di genere dell’Agenda 2030 sono disponibili".
In questa direzione continua a remare anche la campagna #DatiBeneComune che con le oltre 53.000 firme e 240 adesioni di enti raccolte in appena un anno di vita, continua a chiedere al Governo la pubblicazione in formato aperto, riutilizzabile e accessibile da chiunque, di tutti i dati necessari a monitorare il Pnrr, incluso il suo impatto sulle disuguaglianze di genere.
Se come abbiamo visto in precedenza, i numeri che descrivono lo squilibrio di potere a favore degli uomini sono impressionanti, la società civile italiana è sempre più unita e compatta nel chiedere a gran voce che questo "buco" venga finalmente colmato.
Ora sta solamente al Governo e al Parlamento fare la cosa giusta: dare più potere alle donne.
SESSO È POLITICA
dati al 30/09/2021
Grazie al dataset "Anagrafe degli amministratori locali e regionali" pubblicato dal Ministero degli interni, è possibile ricostruire il quadro preciso di chi governa e amministra le nostre città.
Dall'analisi di questi dati si possono ricavare molte informazioni interessanti come, ad esempio, la prevalenza di uomini o donne nei Consigli e nelle Giunte comunali.
I dati qui presentati sono aggiornati al 31 dicembre 2020, quindi precedenti alle recenti elezioni amministrative. Appena saranno disponibili i nuovi dati, aggiorneremo l'analisi, ma non aspettatevi miglioramenti nell'equilibrio tra sessi.
I numeri e le mappe che riportiamo di seguito non possono né intendono spiegare le radici dello squilibrio di genere (per cui avrebbe più senso analizzare il numero di candidate e candidati alle elezioni), tuttavia offrono un'interessante - e preoccupante - fotografia della situazione attuale.
L'analisi del dataset è stata possibile grazie al supporto e alla collaborazione dell'associazione onData e di iXmaps.
I DATI ESAMINATI
Abbiamo preso in esame i 7.690 comuni italiani censiti dal Ministero degli interni, che comprendono 125.225 eletti ed elette (dati 2020).
Il primo dato che salta all'occhio è come gli eletti uomini (83.425) siano praticamente il doppio delle elette donne (41.000).
In pratica, sul totale di 125.225 eletti ed elette censiti al 31 dicembre 2020, gli uomini rappresentano il 67% del totale, mentre le donne appena il 33%.
Non abbiamo ancora avuto modo di aggiornare le statistiche con i risultati delle ultime elezioni amministrative che si sono tenute a ottobre 2021, ma ci pare che la situazione non sia migliorata, anzi parrebbe peggiorata.
Come detto in precedenza, la radice del problema - o quantomeno una delle radici - sta nel numero di candidate nettamente inferiore a quello dei candidati uomini.
Insomma, la competizione è persa già in partenza.
PERCENTUALE DEGLI UOMINI ELETTI
A LIVELLO REGIONALE
Aggregando i dati a livello regionale, possiamo constatare come in nessuna Regione italiana vi sia la benché minima parità di rappresentanza tra uomini e donne.
In tutte le regioni la componente maschile rappresenta anzi più del 60%, arrivando a superare il 70% in quattro casi: Abruzzi, Calabria, Campania e Molise.
La Regione che, si fa per dire, presenta un maggior equilibrio è l'Emilia-Romagna, in cui la componente maschile rappresenta "appena" il 61,4% del totale.
PERCENTUALE DEGLI UOMINI ELETTI
NEI CAPOLUOGHI DI REGIONE
Se andiamo a vedere la situazione nelle venti città Capoluogo di Regione, il quadro non migliora.
Ricordando che i dati sono sempre relativi all'ultimo aggiornamento del Ministero degli interni, rilasciato il 31 dicembre 2021, possiamo constatare come in 18 città su 20 vi sia una maggioranza di eletti uomini. Le uniche città che fanno eccezione sono Roma e Bologna, dove la prevalenza, seppur minima, è femminile.
Nelle altre 18 città si va invece da situazioni di "quasi equilibrio", come a Torino e Campobasso, a situazioni invece tremendamente sbilanciate: in particolare a Catanzaro (dove gli eletti uomini sono il 78,57%), Genova (73,08%) e Napoli (71,15%).
TROVA L'INTRUSA
Dati, numeri, statistiche, grafici sono fondamentali per capire e approfondire i problemi, ne forniscono la "dimensione" e aiutano quindi a trovare le soluzioni o gli strumenti di mitigazione più efficaci.
Le immagini, le fotografie in particolare, riescono però a trasmettere il messaggio con maggior potenza. Guardate le fotografie dei sindaci eletti nei venti Capoluoghi di regione. L'uso del maschile in questo caso non è né una scelta, né un errore. E' il riflesso della realtà in cui viviamo.
Anche se a onor del vero UNA sindaca donna c'è, ad Ancona. Unica donna seduta sulle venti poltrone a disposizione.
(aggiornato alla tornata elettorale di ottobre 2021)
POTREBBE ANDARE PEGGIO?
Sì, potrebbe. Anzi, già ci va.
Se andiamo a vedere l'aggregato dei 7.690 comuni italiani censiti, scopriamo che in 7.112 casi - quindi nel 92,5% - la componente di eletti uomini è superiore al 50%.
Solo in 438 comuni -il 5,6% - le elette donne sono in numero maggiore dei colleghi uomini e in 140 comuni (pari all'1,9%) abbiamo una perfetta parità.
Il dato forse peggiore è però quello relativo ai tanti comuni, ben 2.293, in cui la componente di eletti uomini supera la soglia del 75% del totale.
Insomma, quali che siano le ragioni c'è poco da dire: i nostri territori, le nostre città, quindi le nostre vite, sono governate e amministrate in larghissima parte da uomini.
DATI DI GENERE
SENZA NUMERI È DIFFICILE POTER CONTARE
Valentina Bazzarin
Ricercatrice indipendente, docente, co-fondatrice di Think Tank Period
In queste poche battute vorrei riprendere uno tra i tanti temi scottanti affrontati dall’indagine “Sesso è potere”: l’urgenza di colmare la lacuna di dati di genere in tantissimi ambiti. E lo faccio citando un uomo bianco, un personaggio di fantasia del quale raccolgo l’appello più che reale.
Kevin Costner (che interpreta Al Harrison) nel film “Il diritto di contare” (il titolo originale è “Hidden Figures”) ad un certo punto esclama: “Mi occorrono dei numeri che ancora non esistono. Trovatemi un matematico prima che i russi piantino una bandiera sulla luna.” Il matematico capace di trovare questi numeri nel film sarà una donna, o meglio saranno tre donne afrodiscendenti, che contribuiranno sostanzialmente a salvare la NASA da un probabile e colossale fallimento nelle esplorazioni dello spazio.
Le donne afrodiscendenti hanno un ruolo determinante anche oggi nelle azioni di advocacy per i diritti digitali, nel denunciare le discriminazioni algoritmiche all’interno dei movimenti che si occupano di Femminismo dei Dati e nel sollecitare i movimenti femministi ad evolvere verso un approccio intersezionale, ovvero capace di accogliere la sovrapposizione di diverse identità sociali e le relative possibili particolari discriminazioni, oppressioni, o dominazioni.
La teoria intersezionale ci può aiutare a comprendere in che modo l'ingiustizia sistematica e la disuguaglianza sociale si manifestino a partire da una base multidimensionale (sesso, etnia, residenza, età, etc.). Per tradurre questa teoria in griglie di analisi o in modelli predittivi è necessario compiere preventivamente una riflessione sulle caratteristiche e sulla qualità dei dati che verranno raccolti ed elaborati per muoversi in questo quadro teorico.
Il dipartimento “Donne” delle Nazioni Unite ha da tempo adottato l’approccio del femminismo intersezionale per l’elaborazione delle strategie per la riduzione delle disuguaglianze di genere e per promuovere l’equità di genere. Lo ha fatto in modo trasversale a tutti gli altri ambiti in relazione agli obiettivi di sviluppo sostenibile nell’agenda 2030 e questa scelta è evidente nella sezione dedicata ai dati Women Count del loro sito. Leggendo i report o analizzando i dati provenienti da diverse fonti si può scoprire per esempio che in Pakistan le donne e le ragazze provenienti da alcune aree geografiche o di alcune etnie (Sindhi, Pashtun, Saraiki) soffrano di maggiori privazioni e vivano in condizioni peggiori rispetto alle donne Punjabi o quelle con un’ottima padronanza dell’Urdu. Nelle Maldive invece uno studio ha dimostrato come le donne abbiano sofferto di problemi di salute mentale durante la pandemia in misura maggiore rispetto agli uomini. In Giordania invece come ai problemi legati all’accoglienza dei rifugiati siriani si siano sommati quelli relativi alla crisi globale legati al Covid19. Una rilevazione condotta nell’aprile del 2020 ha rilevato che il 62% delle donne già vulnerabili (comprese le rifugiate siriane) si sentiva a maggior rischio di violenza fisica o psicologica a causa della pandemia. Inoltre, da un punto di vista economico, ha mostrato che le donne che lavorano in settori a basso salario, informali o temporanei e a breve termine, come i lavori stagionali o le piccole imprese, sono state colpite in modo sproporzionato dalla pandemia, con impatti materiali e psicologici. Questi dati sono incredibilmente simili a quelli raccolti in Italia, raccontati da InGenere e presenti nell’ultimo dossier statistico sull’Immigrazione.
Concludendo, non possiamo analizzare fenomeni complessi e tra loro intrecciati se non abbiamo dati di genere. Sono questi i numeri di cui abbiamo bisogno anche per capire perchè “Sesso è potere” e come fare per redistribuire questo potere nella società.
P.S. Se la citazione cinematografica ha stuzzicato la vostra curiosità vi suggerisco di cercare informazioni sulla storia di una delle tre protagoniste della pellicola, Katherine Johnson.
LA MANO INVISIBILE
DELLA CURA
Irene Doda
Giornalista freelance, lavoratrice precaria nell'industria tech. Co-fondatrice di Anticurriculum
Nell’ormai lontano 2019 lavoravo in un ufficio affollato, diviso tra tre compagnie, dove c’era anche una piccola cucina. Essendo uno spazio utilizzato in media da una ventina di persone più volte al giorno, capitava spesso che facessero bella mostra di sé tazze sporche, avanzi di cibo, bottiglie vuote e che il pavimento fosse ornato da macchie di tè o caffè. Si scherzava sul fatto che, quando qualcun* si dimenticava di sciacquare il bicchiere, questo tornava presto al suo posto grazie a una “mano invisibile”. Chi lavava i piatti sporchi, riordinava il frigo e svuotava i cestini non erano però fantomatiche e inafferrabili creature: erano le donne che lavoravano nell’ufficio. Una regola d’oro che ho imparato a usare per avere un colpo d’occhio sulla parità di genere nelle organizzazioni – sia formali che informali - è fare caso a chi si cura di pulire gli spazi. Il mio ex posto di lavoro non presentava dinamiche problematiche dal punto di vista del genere, per lo meno non eclatanti. Eppure, quando si trattava di fare le pulizie nessun uomo muoveva un dito.
La cura è essenziale per la sopravvivenza delle società così come delle organizzazioni. Le donne hanno tenuto in piedi la vita domestica per secoli, riproducendo la forza lavoro, in senso materiale, emotivo e psicologico. Anche il lavoro salariato e i suoi spazi si reggono sulla cura fornita da soggetti femminili. Nessuna persona al mondo potrebbe mai produrre ricchezza, se non vi fosse qualcuno che pulisce i bagni, svuota i cestini o prepara i pasti.
Nella seconda metà del Ventesimo secolo, la cura è entrata a gamba tesa nel mondo del lavoro salariato: lavori una volta svolti invariabilmente a titolo gratuito – cucinare, fare le pulizie, crescere la prole – sono stati esternalizzati, per adattarsi alle esigenze delle famiglie a doppio reddito. Mentre le manager bianche di classe media compaiono sulle copertine dei gloss magazine, al grido di Lean In!, altre donne, spesso migranti o razializzate, cucinano loro i pasti e stirano la loro biancheria.
Ma nel mondo del lavoro retribuito, anche per le più privilegiate, le differenze non si sono certo appianate: l’aspettativa che le donne si prendano cura degli altri (maschile non casuale), come il migliore dei virus, ha mutato forma ed è diventato resistente alle rivendicazioni di parità salariale e di libertà dalla croce domestica. Il cosiddetto terziario avanzato è stato invaso da professioni imperniate sul lavoro emotivo. Operatrici del customer care, addette alle relazioni con il pubblico, esperte di psicologia, marketing e comunicazione, insomma tutti i lavori people oriented sono nella stragrande maggioranza svolti da donne.
Gli uomini, generalmente, fanno altro: curano le strategie aziendali, conducono le trattative con i clienti di punta, programmano e costruiscono. Le loro agende sono sistemate dalle colleghe. Le loro tazze sono lavate dalle colleghe. Le colleghe guadagnano meno di loro e provano a farsi strada ascoltando Ted Talk motivazionali, sperando di riuscire a permettersi un giorno una nanny che faccia, in cambio di uno stipendio, quel lavoro di cura così fondamentale, da cui pare impossibile svincolarsi una volta per tutte.
SESSO E CORRUZIONE
CHE GENERE DI LEGAME?
Michela Gnaldi
Professoressa associata, Dipartimento di Scienze Politiche (Università degli Studi di Perugia)
Il recente panorama degli accordi internazionali di lotta alla corruzione mostra un’apparente stravagante avvicinamento di obiettivi, quelli di parità di genere e lotta alla corruzione. Dal 2018, il Piano Strategico per la parità di genere e il rafforzamento del ruolo della donna adottato dallo United Nations Office on Drugs and Crime integra la United Nations Convention against Corruption (UNCAC). A questo si aggiunge il rapporto del Groupe d'États contre la corruption (GRECO) del Consiglio d’Europa, che recependo la Gender Equality Strategy 2014-2017, introduce tra i nuovi standard di prevenzione della corruzione la strategia di Gender diversity, come mezzo per combattere la formazione di groupthink, viatico per le relazioni corruttive.
Di fronte a questa stravaganza è legittimo chiedersi: che c’entra la parità di genere con la corruzione? C’entra.
Negli ultimi dieci anni la letteratura scientifica internazionale (Brollo & Troiano 2016; Bauhr & Charron 2021) ha mostrato come a livello globale ci sia una relazione negativa tra corruzione percepita e presenza di donne nei parlamenti nazionali. In altre parole, negli Stati nei quali la percezione della corruzione è più forte, c’è una più bassa presenza femminile in Parlamento, e viceversa. La relazione osservata è più forte negli Stati a tradizione democratica liberale e ancor più marcata nei Paesi OCSE, con la tradizione democratica più consolidata al mondo. Si potrebbe controbattere che la corruzione percepita non è la corruzione sperimentata direttamente. Corretto. Tuttavia, gli studi mostrano che la relazione tra corruzione e genere persiste anche nel caso di corruzione sperimentata (in particolare la petty corruption).
Quali sono i meccanismi che spiegano questa relazione? Non c’è una risposta univoca, ma diverse possibili spiegazioni che riflettono altrettanti filoni di pensiero.
Prima spiegazione. In molte società, le donne tendono a svolgere un ruolo centrale di supporto famigliare. In questo ruolo, sono generalmente più interessate al bene comune rispetto agli uomini (Eckel e Grossman, 1998), più oneste e avverse al rischio rispetto agli uomini (Croson e Gneezy 2004), più educate all’autocontrollo (Gottfredson e Gursgum 1990). In sintesi, le donne sono per educazione e ruolo sociale meno avvezze a commettere crimini.
Seconda spiegazione. Le donne che accedono a ruoli di potere, agendo da outsider, incidono sulle relazioni di potere preesistenti recidendo network di relazioni asimmetriche, dunque tradizionalmente o storicamente sfavorevoli alle donne.
Terza spiegazione. Gli stereotipi di genere tendono ad affidare alle donne in posizione di potere più alti livelli di probità rispetto agli uomini, più elevati costumi morali e maggiore onestà.
In una ricerca condotta dalla Fondazione Bellisario (500 interviste), alla domanda “Dovendo scegliere a chi affidare la gestione dei fondi pubblici tra un uomo e una donna a parità di competenze, chi sceglierebbe?”, il 48% preferirebbe una donna mentre solo il 21% si affiderebbe ad un uomo.
Quarta spiegazione. Nella maggior parte delle società contemporanee, le donne tendono a essere il principale fornitore di assistenza domiciliare e a usufruire più frequentemente dei servizi dello stato sociale. La loro presenza in contesti lavorativi legati dall’assistenza (sanitaria, dell’infanzia, degli anziani etc.) è preponderante rispetto a quella maschile. Inoltre, le donne in posizione di rappresentanza politica mostrano priorità di bilancio più elevate per la spesa nel settore del welfare degli uomini (Brollo e Troiano 2016).
Tante spiegazioni, ma ancora nessuna certezza: per questo gli studi su questa relazione "perversa" devono continuare. Con sempre più dati a disposizione, si spera.
CORPI INDIFESI
GLI ATTACCHI AI DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI
Antonella Napolitano
Attivista per i diritti civili, Senior Policy Officer and Network Coordinator a Privacy International
I diritti sessuali e riproduttivi sono parte integrante del quadro dei diritti umani.
Come molti altri diritti umani, oggi vengono messi in discussione a tutte le latitudini e da molti attori diversi.
La tecnologia offre incredibili opportunità per democratizzare l'accesso alle informazioni sulla salute riproduttiva, ai servizi e alle cure. Può svolgere un ruolo fondamentale nel proteggere la vita di coloro che necessitano di informazioni e cure sulla salute sessuale e riproduttiva, soprattutto in luoghi in cui l'accesso è altrimenti impossibile.
Ma nell’era del capitalismo della sorveglianza, anche le minacce a questi diritti sono diventate digitali, basate su raccolta indebita e sfruttamento di grandi quantità di informazioni intime sulla salute riproduttiva delle persone, con l’obiettivo e di ritardare o limitare l'accesso all'assistenza sanitaria riproduttiva.
Dalle app per tracciare il ciclo mestruale, che raccolgono grandi quantità di informazioni sui cicli mestruali e sulla salute riproduttiva delle persone e li vendono ad aziende o persino a datori di lavoro, alle tecnologie di geo-fencing in grado di taggare e indirizzare annunci anti-aborto ai telefoni delle persone all'interno di consultori e cliniche per la salute riproduttiva, le minacce sono numerose e a vari livelli di sofisticazione.
Ma non si tratta solo di sfruttamento commerciale: coloro che si oppongono ai diritti riproduttivi stanno sviluppando e promuovendo strumenti digitali che tentano di ridurre la capacità delle persone di esercitare tali diritti.
Tra le tattiche ci sono ad esempio siti web falsi che danno "l'impressione" di offrire consulenza obiettiva e informazioni sulle opzioni di gravidanza mentre diffondono disinformazione e raccolgono enormi quantita’ di dati estremamente personali, che riutilizzano in vari modi.
Molte di queste iniziative sono segretamente finanziate da organizzazioni antiabortiste.
Un'inchiesta di El Pais in cinque paesi dell'America Latina ha scoperto che diversi centri affiliati all'organizzazione statunitense Heartbeat International si promuovono online come gruppi di sostegno femminista e usano un linguaggio fuorviante a favore dell'aborto, mentre in realtà manipolano chi si rivolge a loro per far portare a termine gravidanze indesiderate con la promessa di un’adozione negli Stati Uniti.
Fondata nel 1971, nel pieno della battaglia per il diritto all’aborto negli USA, secondo El Pais, Heartbeat international “negli anni è diventata un'organizzazione ombrello per tutti i tipi di gruppi che lavorano contro i diritti riproduttivi, con presenza in più di 60 paesi e collegamenti diretti con politici del Partito Repubblicano, ma anche oltre i confini americani (il sito mostra quasi mille affiliati fuori dagli USA).
Spesso si parla di privacy come un diritto limitato, superato, riduttivo. Ma quello alla privacy è anche il diritto di decidere di stabilire confini, limitare chi ha accesso ai nostri corpi.
Ci consente di negoziare chi siamo e come vogliamo interagire con il mondo che ci circonda e di definire quelle relazioni alle nostre condizioni.
Ci consente di reclamare il potere sul nostro corpo da chi vuole limitarlo.
Anche su questo fronte, la battaglia è appena iniziata.